Il 5 agosto 2020 all’età di 96 anni è morto Sergio Zavoli. Giornalista e scrittore, ex presidente della televisione italiana Rai ed ex parlamentare, aveva conosciuto Chiara Lubich e ne è nata una forte amicizia. Di seguito il ricordo di Piero Coda per l’Osservatore Romano, il quotidiano della città del Vaticano.
La notizia della morte improvvisa di Sergio Zavoli ci ha colti tutti di sorpresa, nonostante la sua età ormai avanzata. Perché, pur con gli inevitabili acciacchi dell’età, guardava sempre avanti, con interesse, curiosità, voglia di darsi da fare con entusiasmo e fantasia per il bene dell’umanità. La sua amicizia — intensa, sincera, aperta — mi ha accompagnato negli ultimi 25 anni: da quando, ospite di una fortunata trasmissione televisiva in Rai, Credere non credere, s’erano stabiliti una frequentazione e un dialogo condotti sempre più in profondità e che hanno finito con l’abbracciare gli orizzonti più vasti e impegnativi. Come testimonia il libro intervista Se Dio c’è. Le grandi domande (2000), intorno al quale a lungo ci siamo affaticati.
Dire chi è stato Sergio Zavoli rischia il troppo o il troppo poco. Il troppo perché non amava i discorsi sopra le righe. Il troppo poco perché la sua avventura umana e culturale è stata immensa. Tanto da farlo diventare un testimone privilegiato di quel «viaggio intorno all’uomo» — come l’ha definito — documentato nell’instancabile impegno di dare la parola a uomini e donne che vivono in prima persona la questione e la profezia dell’oggi e di sempre. Un viaggio testimoniale, il suo, alla ricerca delle «espressioni più gravi della “questione”, ma anche dei minimi e più sottesi segnali del cambiamento». «Nel trascorrere degli anni — confessava — ho avuto, come tutti, anche delusioni e stanchezze; non, consapevolmente, la tentazione di aggirare la realtà nascondendola con le parole». No davvero. La penna, la regia, l’insegnamento di Zavoli non l’hanno mai aggirata la realtà. Ma hanno costantemente cercato e saputo trovare le parole giuste per dirla alla nostra coscienza. Segnando da apripista le vie di un giornalismo e di una saggistica che non indulgono alla moda, ma scompigliano le carte documentando, al di là delle apparenze, la storia che in verità accade e i significati, presenti e ultimi, ch’essa implica e trascina con sé. Tutto, per lui, stava nel guardare “laicamente” a Gesù. Quante volte questo tema tornava nelle nostre lunghe e appassionate conversazioni. Nel figlio dell’uomo ch’è Figlio di Dio la questione dell’uomo e la questione di Dio — diceva — s’incontravano definitivamente tanto da diventare indissolubili.
Era troppo accorto e prudente per accontentarsi di facili ma alla fine maldestre, inutili e persino dannose risposte alla “questione”. Registrava invece con puntiglio i segnali di maturazione, di presa di coscienza, di crescita. E riprendendo l’invito di Mario Luzi richiamava alla reciprocità tra il Creatore e la creatura, e delle creature tutte tra loro: non solo degli umani. Perché — argomentava — a partire dalle scelte e dagli stili di vita della quotidianità, si può stipulare «un trattato di pace con il pianeta», ricominciando «da capo, dai fondamenti, ora che crollano gli edifici di cartapesta». Utopia la «civiltà del meno», che in verità esige però un supplemento d’anima, che egli intravedeva all’orizzonte come via al cambiamento? No. Profezia: realistica e sofferta. Non per nulla amava citare Ernst Bloch: «La ragione non può fiorire senza la speranza, la speranza non può parlare senza la ragione». Per questo, negli ultimi anni, la sua empatia e solidarietà di visione nei confronti di Papa Francesco erano piene e gioiose.
Dall’amicizia personale con lui — che mi ha enormemente arricchito — ne sono fiorite altre due. La prima con Chiara Lubich, che incontrammo insieme nel 1997, un’amicizia che si è espressa lungo gli anni oltre che in una regolare corrispondenza epistolare, in eventi come l’intervista pubblica al Teatro Quirino di Roma il 3 dicembre 2001. Sino a quando, solo qualche mese or sono, scriveva un magnifico pezzo per il Catalogo della mostra allestita a Trento per il Centenario della nascita di Chiara. La seconda con la comunità accademica dell’Istituto universitario Sophia, di cui sono stato preside dal 2008 a quest’anno. Zavoli ne ha seguito non solo con intima partecipazione ma direi come fosse uno di noi la nascita e le tappe di sviluppo. Fu a lui affidato il primo appuntamento delle «Cattedre di Sophia», poi pubblicato: Rovesciare l’anima del mondo. Questione e profezia (2010). Ma aveva già partecipato all’inaugurazione, il 1° dicembre 2008, consegnandoci questo testamento: «L’uomo è essenzialmente la sua relazione, dal momento che nascendo ha già dentro la contestualità dell’altro, cioè di colui dal quale promana la sua stessa identità, essendo tutti nati — seppure “a sembianza d’un solo”, come dice Manzoni — “da altri per gli altri”. L’altro, come memoria e come premessa di quella “tela apparentemente senza significato che è la storia”, per dirla con Goethe. Nella quale, invece, ciascuno vale tutta l’umanità e deve risponderne per intero. Essendo ciascuno il liberatore di sé stesso anche nell’altro. E l’altro in ciascuno di noi».
Piero Coda