Attenta alle necessità che il mondo presenta, quella del focolare è una vita semplice, intima e aperta, di unione e relazione, con Dio e col prossimo.

Il piccolo appartamento di piazza Cappuccini n. 2, in cui Chiara va ad abitare con alcune delle sue prime compagne dall’autunno del 1944, è semplicemente chiamato la “casetta”. Quel piccolo gruppo di ragazze condivide però, in quel bilocale, una vita intensa di comunione, di intima unità con Dio e tra loro, aperta a quei prossimi, a partire dai più poveri, che il Vangelo insegna loro a prediligere. A dare senso a questa convivenza è la presenza di Gesù, che sostiene e illumina e che, conosciuto nella sua massima espressione d’amore crocefisso e Abbandonato, le orienta nelle relazioni tra loro e con quanti incontrano. “E lì abbiamo cominciato a vivere questo spirito che io cominciavo a intravedere, cosa dobbiamo fare: vivere il Vangelo, amare, poi ci si concentrava soprattutto sull’amore. E cominciavamo a viverlo così. Era la nostra felicità. Noi naturalmente eravamo a disposizione di tutti quelli della guerra: le donne rimaste senza i figli, oppure soprattutto i mutilati, gli ammalati, gli affamati, eravamo sempre in giro per la città ad aiutare tutti, e poi tornavamo a casa. Chi dava senso al nostro vivere era proprio la presenza di Cristo spiritualmente in mezzo a noi”. Il Vangelo, vissuto alla luce del carisma dell’unità, spinge soprattutto ad amare e, quale espressione concreta dell’amore fraterno, porta a mettere in comune i beni: il tempo, l’ascolto, il sovrappiù e a volte anche il necessario.

Ogni giorno erano nuove scoperte nel Vangelo, diventato ormai unico nostro libro, unica luce di vita.
Comprendevamo chiaro che nell’amore è tutto, che l’amore vicendevole «doveva» formare l’ultimo richiamo di Gesù alle anime che l’avevano seguito, che «il consumarsi in uno» non poteva non essere l’ultima preghiera di Gesù verso il Padre, sintesi suprema della Buona Novella.
Gesù sapeva che la santissima Trinità era beatitudine eterna, ed egli, Uomo Dio sceso a redimere l’umanità, voleva trascinare tutti quelli che amava nella com-Unità dei Tre.
Quella la Patria sua, quella la patria dei fratelli che aveva amato fino al sangue.
«Consumarci in uno»: fu il programma della nostra vita per poterlo amare.
Ma dove due o più sono uniti nel suo nome, Egli è in mezzo ad essi. La sentivamo, la sua divina presenza, ogni volta che l’unità trionfava sulle nature nostre ribelli a morire: presenza della sua luce, del suo amore, della sua forza.
[…] E dicevamo già dall’inizio: «Sì, il Vangelo è soluzione di ogni problema individuale e d’ogni problema sociale».
Lo era per noi, fatte un cuor solo, una mente sola; poteva esserlo per più, per tutti[1].

Altri entrano in questa dinamica vitale. Palmira Frizzera, volendo conoscere più da vicino queste ragazze che nella città di provincia erano ormai conosciute, si reca alla casetta e della prima volta in cui entra nel piccolo appartamento, ricorda che “in piazza Cappuccini, si entrava subito in cucina, poi una porta a destra e una a sinistra, tutto lì. Nella porta a destra c’era la stanza dove dormiva Chiara. Reti per terra e un grande quadro di Gesù abbandonato. Su queste reti dei materassini con delle copertine con dei fiorellini colorati, tutto ben pulito e curato. Ed io dico: cosa? Voi vivete qui e non me l’avete detto? E dico: io da qui non parto più”.
Marco Tecilla, primo focolarino, quasi tutti i giorni si reca nella casetta per riparare qualcosa: il piccolo fornello da aggiustare, un guasto all’impianto elettrico. Abita poco distante da Piazza dei Cappuccini e sa fare quei lavori. “Io arrivavo sempre all’ora di cena e sentivo i discorsi di queste ragazze. C’era Chiara, Graziella, Giosi, Natalia, Vit, Aletta… mi colpiva molto il parlare di Chiara, era un discorso evangelico, la Parola di Vita, Gesù, Maria, un discorso che mi colpiva molto. Respiravo questo clima soprannaturale”.
Giosi Guella, originaria di un paese dell’alto Garda, di quei primi tempi ricorda: “Quando arrivavo in piazza Cappuccini, col pranzo preparato dalla mia mamma, un giorno c’era Angelella, e mi dice, vieni con me a visitare una mia povera e portiamo il tuo pranzo. Entriamo in una stanza con un letto ed un’anziana lì. Come Angelella è entrata, è andata verso questa povera e l’ha abbracciata e mi ha detto: “è Gesù”. I poveri erano proprio Gesù”.
Aldo Stedile, che con Marco Tecilla e altri due giovani nel 1948 dà vita al primo focolare maschile, confida: “Avevamo capito che questo nuovo Ideale doveva farci un’anima sola. Non era facile, perché eravamo diversi, il nostro carattere era differente, però piano piano, attraverso il continuo esercizio, attraverso anche le cadute, gli sbagli, piano piano siamo diventati veramente un’anima sola. […] Logicamente non vivevamo solo per noi, vivevamo per tutta una comunità che nel frattempo si era formata in città”.
Attenta alle necessità che il mondo presenta, quella del focolare è una vita semplice, intima e aperta, di unione e relazione, con Dio e col prossimo. Il nome focolare arriva più tardi, ma la “casetta” di Piazza dei Cappuccini è il luogo dove inizia a realizzarsi quell’elemento particolare cui aspira Chiara quando sente che “se da una parte la vocazione a una consacrazione a Dio, come può avvenire per esempio in un monastero, mi sembrava bella, più bella ancora mi sarebbe sembrata una consacrazione a Dio, un dedicarsi a Dio, un contemplare Dio stando in mezzo al mondo[2].

Note

  1. [1]

    Chiara Lubich, La comunità cristiana, su Fides, ottobre 1948

  2. [2]

    Chiara Lubich, ai focolarini esterni, Rocca di Papa 20 dicembre 1966

Riferimenti bibliografici

Attenta alle necessità che il mondo presenta, quella del focolare è una vita semplice, intima e aperta, di unione e relazione, con Dio e col prossimo.