La luce va data. Un libro di Maria Caterina Atzori sugli scritti di Chiara Lubich
«La tua la nostra messa il mondo non capirà. È tanto difficile capire il dolore offerto per amore»! Sono le prime parole di un canto del complesso internazionale Gen Rosso che echeggia in tante nostre chiese, immergendoci nel mistero più profondo della celebrazione eucaristica. Pochi ne conoscono l’origine. Sono versi diffusi in un piccolo libro che raccoglie alcuni testi di Chiara Lubich, un best seller, con traduzioni in quasi 30 lingue, 29 edizioni, centinaia di migliaia di copie. Il suo titolo è: Meditazioni. Il cardinale Gianfranco Ravasi, in apertura dell’ultima edizione del 2020, definisce quelle meditazioni «una terapia per l’anima», «una medicazione necessaria soprattutto oggi quando l’esteriorità, che genera superficialità, ha aperto tante feritoie nella coscienza».
In quest’ultimo tempo è comparsa nelle librerie una nuova pubblicazione che illumina ancor più quelle pagine. Si tratta della prima edizione critica di queste meditazioni dal titolo La luce va data ad opera di Maria Caterina Atzori, da anni studiosa degli scritti di Chiara Lubich in prospettiva linguistico-letteraria. Questo testo è frutto di una ricerca durata 5 anni. Come scrive l’autrice stessa nell’introduzione, «tutto l’impegno si è concentrato nell’esame dei documenti originali, manoscritti autografi, dattiloscritti o a stampa».
Della accurata ricerca e studio dell’autrice, ciò che più mi è stato di luce per una nuova comprensione di quei testi è la contestualizzazione di ognuna delle 58 meditazioni che, pur conosciute da anni, rivelano nuova profondità. Possiamo qui citare solo, a mo’ di esempio, quei versi citati all’inizio. Portano il titolo Se tu soffri. Il contesto storico-esistenziale sorprende: la data di pubblicazione sulla rivista «Città Nuova» ai suoi primi numeri, è il 5 novembre 1957. Il 4 aprile di quell’anno Chiara in una lettera ai focolarini parla di «cupa notte che avvolge non solo la mia anima, ma tutta l’Opera». Sono anni di durissima prova, in cui il suo ruolo nel movimento e il movimento stesso non sono ancora riconosciuti dalla Chiesa. In aggiunta, il 19 maggio di quello stesso anno, Chiara è vittima di un grave incidente stradale che la costringerà all’immobilità per vari mesi. Il 17 settembre parla di un suo «stato di infermità che continua». «Se soffri e il tuo soffrire è tale…». Se ne intuisce appena l’intensità. L’intensità di quel «dolore offerto per amore… che il mondo non comprende…», ma va «a beneficio dell’umanità». Quelle pagine rigenerano, se Igino Giordani, introducendo la prima edizione del 1959, le aveva definite «una polla d’acqua tra le rocce», «quasi uno squarcio di cielo trapiantato in mezzo alle case».
Ancora il contesto di quegli scritti mostra quanto Chiara vivesse immersa nell’attualità. La lotta di classe, la morte del Papa Pio XII , il comunismo in Italia, la politica estera italiana, sono temi trattati dalla nascente rivista «Città Nuova» e sono illuminati dalla luce del Vangelo che traspare dalle brevi meditazioni ispirate dalla prospettiva del carisma dell’unità, fatto vita della sua vita.
La luce va data. Luce incarnata, contestualizzata, dicevamo. È un filone scientifico ancora inesplorato quello iniziato in prospettiva linguistico letteraria di cui l’autrice è esperta. Ci auguriamo che si sviluppi a dimensione interdisciplinare e sia esteso a tutta la produzione letteraria di Chiara Lubich e non solo. Dal punto di vista giornalistico, una notizia, una storia, «non possono essere isolati dal contesto, astratti dal teatro nel quale sono accaduti, sfrondati dal clima e dall’atmosfera che li hanno accompagnati», affermava Richard Kapuscinski, grande giornalista polacco (cfr. R. Kapuscinski, Lapidarium, Feltrinelli, 1997, p. 53), perché «si rischia di ignorare le dinamiche profonde che stanno dietro l’episodio o la storia e ne costituiscono la sua significanza», come sottolinea il giornalista televisivo Piero Damosso (cfr. Piero Damosso, Nuovi criteri notiziabilità, Seminario Intermediando, 14.9.2008, www.net-one.org).
La contestualizzazione che troviamo nel corposo volume della Atzori, tra gli altri, ha il grande merito di “agganciare” la parola innanzitutto alla persona che la scrive. È quanto auspicava il filosofo Giuseppe Zanghì. «La parola — affermava — non è una entità che nasce da niente», mentre, lamentava che «il pensiero moderno pur essendosi fatto molto attento alle parole non riesce ad entrare nel mistero della parola, perché studia il pensiero slegato da chi lo ha espresso» (Marco Martino, Intervista a Giuseppe Maria Zanghì. La sfida culturale del carisma dell’unità, Città Nuova 2015, p. 61)
Da questa contestualizzazione si evidenzia quanto Chiara, anche nelle situazioni più dolorose, come abbiamo visto, avverta imperiosa la spinta a comunicare per generare, consapevole di essere uno strumento nelle mani di Dio a cui è stato affidato un carisma che è per la Chiesa e l’umanità. Come il pellicano, “pescava dal di dentro”, la comunicazione nasceva dalle profondità del suo rapporto con Dio, era sempre colta nell’Amore, dal silenzio dell’interiorità, dall’incessante ascolto di “Quella voce”. Lo scrivere di Chiara è ben espresso dalla filosofa e scrittrice spagnola, Maria Zambrano: è quello «scrivere che richiede fedeltà prima di ogni altra cosa: essere fedeli a ciò che chiede di essere tratto fuori dal silenzio». «È come far nascere qualcosa che spinge; una scrittura che somiglia molto al momento della nascita, al parto. Questo qualche cosa è la vita». (cfr. Pietro Barcellona, La Parola perduta. Tra Polis greca e cyberspazio, edizioni Dedalo 2007, pp. 169-171).
La luce va data. Un testo dunque che getta nuova luce su quel piccolo libro di Meditazioni e dà una nuova comprensione di quell’impatto che ha avuto e continua ad avere ben oltre la cerchia di quanti sono rimasti toccati dal suo carisma non solo in Italia, ma anche in altre nazioni europee e negli altri continenti.
di Carla Cotignoli
(da L’Osservatore Romano – 17 Maggio 2021, p.10)