Io mi sposavo. Sposavo Dio. Così Chiara Lubich racconta la sua consacrazione a Dio del 7 dicembre 1943

Immaginate una ragazza innamorata; innamorata di quell’amore che è il primo, il più puro, quello non ancora dichiarato, ma che incomincia a bruciare l’anima. Con una sola differenza: la ragazza innamorata così, su questa terra, ha negli occhi la figura del suo amato; questa, non lo vede, non lo sente, non lo tocca, non ne avverte il profumo con i sensi di questo corpo, ma con quelli dell’anima, attraverso i quali l’Amore è entrato e l’ha invasa tutta. Di qui una gioia caratteristica, difficile a riprovare nella vita, gioia segreta, serena, esultante.

L’incipit, del racconto della consacrazione di Chiara Lubich, ha i caratteri di una storia d’amore, che lei narra con le parole delle emozioni e dei sensi del corpo, per comunicare una relazione inesprimibile come è quella tra Dio e un’anima. Lecito è immaginare quel che può essere stato, doveroso è rivivere il 7 dicembre 1943 nei tratti che Chiara ha scelto per descrivere il giorno delle sue nozze. Ripercorriamo quel giorno così come lo ricorda nel 1973.

Una bufera infuriava, così che dovetti farmi strada spingendo l’ombrello avanti. Anche questo non era senza significato. Mi pareva esprimesse che l’atto che stavo facendo avrebbe trovato ostacoli. Quella furia di acqua e di vento contrario mi sembrava simbolo di qualcuno d’avverso.

Su consiglio del confessore, la sera precedente alla sua consacrazione, Chiara veglia col crocefisso in metallo che ha nella sua stanza. Inginocchiata accanto al letto, prega per circa due ore. Giovane e poco convinta di certe pratiche che poi si sono mostrate non conformi alla sua vocazione, si addormenta, dopo aver osservato che il crocifisso era tutto irrorato dall’umidità dell’alito della sua preghiera. Questo fatto le sembra un simbolo: il crocifisso che avrebbe dovuto seguire non sarebbe stato tanto quello delle piaghe fisiche, che molte spiritualità avevano già messo in rilievo, quanto quello dei dolori spirituali che Gesù aveva provato.

Di prima mattina, da via Gocciadoro dove risiedeva con la famiglia, Chiara attraversa la città e si reca verso la cappella del Seminario minore dei Cappuccini, a circa trenta minuti a piedi da casa sua. Alla madre aveva detto che avrebbe dovuto partecipare ad una funzione che sarebbe durata a lungo.

Arrivata al collegio: cambio di scena. Un enorme portone si apre da solo automaticamente. Senso di sollievo e di accoglienza, quasi braccia spalancate di quel Dio che mi attendeva.

È Dio che la chiama, l’attende. Quel Dio che, tra le macerie della Seconda guerra mondiale, le si era manifestato come Amore. È Dio che l’accoglie, a Lui si dona.

La chiesetta era adornata alla meglio.

Sullo sfondo campeggiava una Madonna immacolata. Davanti all’altare, al di là della balaustra, era preparato con cura un inginocchiatoio.

Il sacerdote m’aveva precedentemente detto di portargli un biglietto chiuso con la richiesta di una grazia, sicuro che l’avrei ottenuta in quel giorno. Lo prende. In esso chiedevo la fede per una persona a me cara. Lo mette sotto il corporale e inizia la Messa.

All’epoca il sacerdote celebrava la Messa con le spalle al popolo, e così Padre Casimiro ha fatto logicamente anche quella mattina. Ma ad un certo punto, non so, ho messo male un piede, ho fatto una mossa, non so, e mi sono girato di scatto per non cadere e l’ho vista in volto; non l’ho mai detto, neppure a Chiara […], ma quando mi sono girato di scatto per quel piede messo male l’ho vista sfolgorante, così, si capisce. Un’anima di fiamma, il volto, e dunque con maggior sicurezza ho accettato quel voto nelle mie mani, ma questo non gliel’ho detto…

Prima della Comunione ho visto, in un attimo, quello che stavo per fare: avevo attraversato un ponte con la consacrazione a Dio; il ponte mi crollava dietro le spalle, non sarei più potuta tornare nel mondo. Sì, perché la mia consacrazione non era semplicemente come la formula che ho poi letto davanti all’Eucaristia alzata di fronte a me: “Faccio voto di castità perfetta e perpetua”; era un’altra cosa.

Io mi sposavo. Sposavo Dio. E ciò non significava soltanto purezza, non matrimonio umano, ma lasciare tutto: genitori, studio, scuola, diversivi, tutto ciò che nel mio piccolo mondo avevo fino allora amato. Quell’aprire gli occhi su ciò che stavo facendo – ricordo – è stato immediato, breve, ma così forte, che mi è caduta una lacrima sul messalino.

Chiara spiega ciò che ha vissuto con il linguaggio della relazione sponsale: “Io mi sposavo. Sposavo Dio”. Pronuncia un voto, una formula, ma la sua consacrazione è un’altra cosa. Uno sposalizio segreto, di cui sono al corrente solo lei, Dio e il confessore. Un atto per sempre, che significa lasciare tutto ciò che nel suo piccolo mondo ama. “Aprire gli occhi”, rendersi conto di ciò che compie, le fa scendere una lacrima. È un atto cosciente e libero quello che compie: in cuore una gioia serena, esultante.

La Messa è finita nel silenzio. Sono scesa, mi sono inginocchiata in un banco.

Il sacerdote si è tolto i paramenti e si è inginocchiato qualche banco dietro di me. Un lungo ringraziamento.

Poi il sacerdote avvicinandosi, mi ha detto: “Lei sarà sposa di sangue”.

Pur grata di ogni cosa che mi veniva detta, non sentivo consonanza tra ciò che lui diceva e ciò che avvertivo nell’anima. Quel “sposa di sangue” mi pareva una formula d’altri tempi, non fatta per me. E ciò che il mio cuore ha risposto è stato: “No, io sono sposa di Dio”. Ed era quel Dio che più tardi si sarebbe manifestato come abbandonato: sangue certamente, ma sangue dell’anima.

Credo d’aver fatto la strada di ritorno verso casa di corsa. Mi sono soffermata soltanto vicino, mi sembra, al vescovado, a comperare tre garofani rossi per il crocifisso che mi attendeva in camera. Sarebbero stati segno della festa comune.

Tutto qui[1].

Nel 1943 siamo a diciannove anni dall’Inizio del Concilio Vaticano II e la novità di quel “sì”, potrà essere meglio compresa solo in tempi seguenti. Come un seme che custodisce al suo interno l’embrione da cui si svilupperà una nuova pianta, nel giorno della consacrazione, in quel voto, è però custodito tutto quello che poi verrà.

La frase del sacerdote che si avvicina a Chiara dopo la Messa, “Lei sarà sposa di sangue”, fa intuire come poteva essere compreso fino a quel momento l’atto di donazione perpetua a Dio. Si usava così– ricorda p. Casimiro Bonetti –, la verginità è legata anche al martirio, a dare la vita e la vita è significata nel sangue, poi c’è il preziosissimo sangue di Cristo. Un’usanza che viene ancora da Caterina da Siena, credo[2]. Chiara non risponde, quasi che le parole per esprimere ciò che era avvenuto, quella ragazza non le avesse da sé. Le vengono suggerite dal cuore: “No, io sono sposa di Dio”. Nei limiti dell’umana natura, il sacerdote si esprime, Chiara comprende, nel suo cuore la risposta. Un dialogo particolare, in cui l’interlocutrice, trova una risposta che non comunica, che custodisce e medita, ma che annuncia la novità e la particolarità della sua vocazione.

La dissonanza tra quel che dice il sacerdote e quel che avverte nell’anima Chiara può essere un primo segno della via nuova che attraverso lei, si apre nella Chiesa: una relazione esclusiva tra l’uomo e Dio Amore “che più tardi si sarebbe manifestato come abbandonato: sangue certamente, ma sangue dell’anima”.

Note

  1. [1]

    Chiara Lubich, Rocca di Papa, 7 dicembre 1973

  2. [2]

    P. Casimiro Bonetti, in un’intervista inedita rilasciata a Maffino (Redi) Maghenzani

Riferimenti bibliografici

Io mi sposavo. Sposavo Dio. Così Chiara Lubich racconta la sua consacrazione a Dio del 7 dicembre 1943